Secondo l’ultimo Global Gender Gap report, una sorta di classifica mondiale stilata sulle differenze sociali ed economiche tra uomini e donne, il concetto di parità è ancora piuttosto lontano soprattutto se si paragonano i salari di uomini e donne.
Nel nostro paese la situazione sta addirittura peggiorando e, nella classifica stilata dal World Economic Forum, l’Italia crolla all’82esimo posto.
Il podio è occupato saldamente dai progressisti paesi scandinavi, ma a sorprendere è il quarto posto del Rwanda.
Come fa il Rwanda a essere più sviluppato ed equo del nostro paese, e cosa possiamo imparare da chi ha colmato il Gender Pay Gap?
Possibile che nel 2018, non solo in Italia, esistano ancora discriminazioni di genere? E cosa determina davvero la differenza di guadagno tra uomini e donne?
Gender gap: cos’è e da cosa dipende la differenza di salari
“Equal Pay for Equal Work” è il motto delle lotte per i diritti dei lavoratori negli Stati Uniti.
Essere pagati in egual misura a fronte dello stesso lavoro ci sembra leggitimo ma, nonostante i decenni di lotte per l’emancipazione, ancora oggi in Europa non è così. Dallo scorso 3 novembre (Gender Pay Day) e fine a fine anno, è come se le donne lavorassero gratis!
Come mai? Davvero le donne sono pagate meno solo perché donne?
Se andiamo oltre ai numeri e cerchiamo le cause, negli Usa, in Italia, così come in molti paesi occidentali, il ruolo delle donne nella storia è molto simile.
Fino agli anni ’50 le donne che lavoravano fuori dall’ambito domestico erano pochissime ed erano sempre meno istruite degli uomini.
Quelle poche che lavoravano facevano per lo più le maestre, le segretarie o le operaie al montaggio in serie perché gli venivano riconosciute doti di abilità nei lavori manuali. La carriera era riservata agli uomini e anche la discriminazione era perfettamente legale.
Le aziende infatti pubblicavano annunci di lavoro destinati solo agli uomini.
A fattori numerici che spiegavano il divario salariale:
- la minor istruzione
- la scarsa partecipazione al mondo del lavoro
Si sommavano convinzioni sociali di genere e di ruolo:
- si credeva che le donne fossero meno intelligenti
- che fossero adatte solo a certi tipi di lavori
- che dovessero occuparsi di crescere i figli e accudire la casa
Decenni di lotte hanno cambiato in modo incredibile le cose e i fattori che generavano il divario salariale sono spariti. Tutti, eccetto uno.
Il fatto che le donne partoriscano crea la presunzione che siano loro a doversi occupare della prole. L’aspettativa popolare ancora oggi è questa.
Anche nei paesi industrializzati la maggioranza pensa che una donna con dei figli debba lavorare al massimo part time. Mentre ci si aspetta che i neo padri lavorino full time.
Che le neo mamme facciano la scelta di dedicarsi ai figli è giusto e rispettabile, che questo venga dato per scontato o doveroso no. Che alla maternità debba per forza corrispondere un calo del lavoro è riduttivo e sbagliato.
L’analisi dei numeri mostra inoltre, che anche quando le madri lavorano full time come i partner, spendono 9 ore in più alla settimana occupandosi dei bambini o della casa. Ogni anno questo significa 3 mesi in più di lavoro.
Il nocciolo del divario salariale è tutto qui.
Per capire meglio il perché confrontiamo la storia di due giovani, un uomo e una donna, che iniziano le loro carriere partendo dalla stessa base: uguale istruzione, potenzialità e tipo di lavoro.
A cavallo dei trent’anni i due giovani iniziano a pensare di avere dei figli.
Alla nascita dei figli e, per quanto ci si possa far aiutare da nonni, tate e baby sitter, ci sono momenti in cui è necessaria la presenza di un genitore: visite mediche, impegni scolastici, malattie.
Di tutte queste situazioni se ne occupa quasi sempre lei.
Nel frattempo lui avanza di carriera e ottiene promozioni. Lei invece deve rifiutare incarichi, nuovi impegni, trasferte.
In otto, dieci anni, lui è nell’apice della carriera o dello sviluppo professionale, lei lavora in modo flessibile o part time e il potenziale guadagno è ormai molto divergente.
Uno studio condotto in Danimarca dimostra quindi che il divario salariale non si basa sul fatto di essere donna o no, ma sull’essere madre o no.
Molte donne scelgono consapevolmente e felicemente di dedicarsi ai figli rinunciando a una parte della carriera. Ma il problema sta nel fatto che non sempre questa è una scelta libera. E dipende dal modo in cui consideriamo la famiglia, le madri e i padri. Da convinzioni sociali non economiche, per questo è difficile chiudere il divario.
Difficile, ma non impossibile.
Gender gap: gli esempi di Rwanda e Islanda
Due paesi al mondo, per motivi e in modi molto diversi, sono riusciti in pochi decenni a colmare il divario di genere: Islanda e Rwanda.
Osservando cosa è successo da loro si possono imparare importanti lezioni su come creare una società in cui le donne hanno lo stesso salario degli uomini.
Il Rwanda è uno dei paesi più poveri della Terra e fino a pochi anni fa alle donne erano vietati i diritti fondamentali.
Fino al 1994 alle donne era vietato parlare in pubblico, aprire un proprio conto corrente in banca se non autorizzate dal marito, ricoprire cariche pubbliche, politiche o militari.
Poi nel 1994 ci fu uno dei peggiori genocidi del XX secolo che fece circa ottocentomila vittime in tre mesi. Soprattutto uomini.
Dopo le violenze di quei mesi la struttura sociale del paese era completamente distrutta e la popolazione era composta per quasi il 70% da donne. A quel punto il governo ruandese capì che per consentire al paese di sopravvivere, le donne dovevano avere accesso a ruoli, lavori, cariche a cui prima non potevano accedere.
Venne modificata radicalmente la costituzione introducendo il concetto di parità di diritti tra generi, stabilendo che almeno il 30% dei rappresentanti di tutte le cariche fossero donne e l’istituzione di un ufficio per monitorare la parità tra i generi.
Oggi in Rwanda l’88% delle donne lavorano e la loro presenza in parlamento è del 61%, la più alta percentuale del mondo!
Questo cambiamento culturale iniziato per ragioni di sopravvivenza dopo il genocidio, è stato realizzato grazie a decisioni politiche e ora, il Rwanda, ha quasi raggiunto la chiusura del divario di genere.
Tanto più a Nord, anche la piccola Islanda ha fatto grandi progressi nella chiusura del divario salariale tra uomini e donne. Fortunatamente il percorso è stato molto diverso da quello del martoriato Rwanda.
Fino al 1975 le donne islandesi venivano pagate circa il 60% del salario percepito dai colleghi maschi. Per protestare su questa ingiusta disparità il 24 ottobre del 1975 si presero quello che venne definito “Il Giorno Libero”. Il 90% della popolazione femminile non andò al lavoro, non si occupò dei figli, nè della casa per tutto il giorno.
Senza donne, gli asili rimasero chiusi e gli uomini si portarono i figli al lavoro. Tante attività dovettero sospendere la produzione per l’intera giornata.
La protesta scaturì dibattiti che portarono all’approvazione di una legge sulla parità di genere. La società islandese iniziò a cambiare al punto che cinque anni dopo, nel 1980, Vigdís Finnbogadóttir divenne la prima donna al mondo eletta democraticamente Presidente della Repubblica.
Da lì, il numero delle donne in parlamento è salito alle stelle determinando importanti cambiamenti politici.
Nel 1988 l’Islanda è stato il primo paese al mondo ad approvare l’aspettativa di maternità retribuita fino a 6 mesi, ma per quanto progressista potesse essere quella concessione, incoraggiava le madri a star a casa mentre i padri continuavano a lavorare, rinforzando la convinzione sociale che dovesse essere la mamma a prendersi cura dei bambini.
Così, già nel 2000, il parlamento islandese fece una scelta radicale, chiedendosi cosa sarebbe successo riconoscendo ai padri la stessa aspettativa che era stata concessa alle madri.
L’aspettativa di paternità ha fatto la differenza sia nella società che nel mondo del lavoro islandese perché ora un’azienda che assume un giovane ragazzo o una giovane ragazza, sa che entrambi prenderanno un’aspettativa se diventeranno padri o madri.
Questo ha quasi azzerato il divario salariale di genere.
Le decisioni di politica familiare incidono nella qualità di vita ed economica non solo di un genere ma di un’intera società. Garantire alle donne la possibilità di scelta favorisce non solo l’uguaglianza ma anche la crescita di un paese.
Ci sarà probabilmente sempre una percentuale irriducibile dovuta alla discriminazione. Parecchi lavori e alcuni ambienti ancora oggi favoriscono gli uomini, ma questa discriminazione è diminuita nei decenni mano a mano che le società hanno accettato il fatto che le donne non debbano essere le uniche a crescere i figli.
Mi auguro che anche l’Italia sappia far crescere i propri con eguaglianza.
Giorgia Ferrari
6 anni fa
Buongiorno Giorgia! Non so neanche da dove cominciare a rispondere, hai scritto tanto e si sente che sei toccata dall’argomento leggendo le tue parole!
Forse vado un po’ contro corrente ma io, in quanto uomo, mi sento discriminato al contrario 😀 …perchè mia moglie ha ricevuto 11 mesi di maternità e io niente??? Chi sono io? Chi ha detto che, essendo uomo, DEVO lavorare, produrre, fatturare?
Mi sono sentito privato dei primi (faticosi) mesi della mia bambina!
Encomiabile e intelligente lo sciopero dell’Islanda e molto intelligente la soluzione dell’aspettativa ambivalente, ne avrei senz’altro usufruito!
Leggevo anni fa che la storia di questo divario è mooolto più antica, risalente al paleolitico quando le donne erano le deboli (fisicamente) che stavano a “casa” a badare alla prole ed erano le addette all’agricoltura mentre gli uomini erano quelli che si occupavano della caccia e della costruzione. Beh forse 30 mila anni fa questo divario era comprensibile.
Nell’era delle sneakers da 12.000$ e del gin maledetto da vere streghe per halloween :/ questo divario sarebbe il caso di accantonarlo, abbiamo molto più bisogno noi di voi che viceversa!
Una buona vita!
6 anni fa
Ciao Andrea, buongiorno a te!
L’argomento più che toccarmi mi ha sorpreso.
Quando è uscita la notizia del 3 Novembre (gender pay gap) mi sono chiesta se davvero davvero le donne, nel 2018, siano ancora discriminate solo in quanto donne. Approfondendo mi sono accorta che il problema è mal posto. I numeri in realtà non spiegano nulla, inducono conclusioni filo femministe e alimentano una contrapposizione tra generi, ma la strada da percorrere è più ampia.
Solo una paritaria politica famigliare può mettere tutti nelle condizioni di non sentirsi discriminati. Uomini o donne che siano.
Sul fatto che voi abbiate più bisogno di noi che viceversa mi astengo. Le generalizzazioni non sono il mio forte in questo pezzo di vita.
A presto e buon tutto 😉