La misura classica di rischio di un titolo o di un portafoglio costituito da più strumenti è la cosiddetta volatilità.
Con questo termine si indica il grado di variabilità dell’investimento rispetto al suo valore medio: ad esempio se un titolo azionario ha un livello di volatilità pari a 30 e rendimento medio atteso del 10% significa che, in due anni su tre, posso aspettarmi che il titolo oscilli tra più il +40% e il -20%.
La misura della volatilità è un dato abbastanza comune sia nell’informazione finanziaria (stampa e internet), sia nei rendiconti inviati dalla banca presso cui sono detenuti gli investimenti.
Un indicatore che ritengo essere più efficace nel fotografare il rischio è il cosiddetto VAR (Valore a rischio) che è una misura statistica che consente di misurare in termini monetari il rischio di mercato degli strumenti finanziari e di valutare la coerenza tra la perdita potenziale di un portafoglio ed il proprio profilo di investitore.
In sostanza esso rappresenta la massima perdita potenziale che un portafoglio può subire, in un determinato orizzonte temporale e con un certo livello di confidenza.
In pratica se il livello del Var annuale fosse pari a 5 al 99% di confidenza, significa che in 99 anni su 100 l’aspettativa è che il portafoglio in questione non perda più del 5% rispetto al suo valore a inizio anno.
È importante sottolineare come questi indicatori siano delle misurazioni statistiche e in quanto tali si prestano a fornire un riferimento nella scelta dei propri investimenti, ma bisogna essere consci del fatto che nella realtà si possono verificare delle situazioni “inattese” che generano perdite superiori a quelle stimate.
Inoltre gli indicatori di rischio cambiano dinamicamente ogni giorno, in relazione all’evoluzione dei mercati, è quindi opportuno verificarli non solo al momento dell’investimento, ma per tutta la durata dello stesso.
Purtroppo il Var è un indicatore difficile da trovare, sia attraverso i media che presso gli intermediari, infatti banche e promotori hanno la tendenza a proporre prodotti finanziari ponendo l’accento sui rendimenti attesi: evidenziando le possibili perdite il “rischio” per l’intermediario è infatti quello di non riuscire a collocare il prodotto in questione.
Concludo sottolineando come sui mercati finanziari non si comprano rendimenti, ma solo rischi, nel senso che i rendimenti futuri non sono altro che la remunerazione per i rischi che ci si è assunti.
Michele Colosio, Consulente Finanziario Indipendente – info@ifaconsulenza.it
14 anni fa
ciao dottor roberto :
io penso che gli indicatori siano si indici che danno una certa utilità
al nostro sistema di ricognizioni di dati ma portroppo non sono sempre
veritieri . almeno fino a nuove notizie che smentiscono sempre quello
che prima ci avevano detto si và bene cosi perchè …………
di solito le controsmentite arrivano dopo qualche giorno e spesso sono
notizie che se vengono dall’america la borsa di milano ed europee subi
scono dei contraccolpi emorragici . se la notizia arriva di rimbalzo
dall’europa cala l’indice down jonhs e si trascina giù tutte le borse per alcuni giorni . gli indici vanno bene quando esci da un periodo di
grosse perdite cali di mesi e mesi allora gli indici possono definire
una situazione di sollievo e le borse di tutto il globo guadagnano gli
indici finanziari rispettano certi criteri e funziona tutto bene .
ciao roberto buone vacanze . piergiorgio
14 anni fa
Concordo con quanto detto dal Dr. Colosio circa l’utilità di vedere l’investimento partendo dal principio basato sul buonsenso: “primo non prenderle”. Ovviamente il Value at risk è un indicatore e in tal senso va considerato. Ormai è un indicatore abbastanza diffuso anche in virtù dell’applicazione della MIFID (normativa sull’adeguatezza degli investimenti al profilo dell’investitore). Altresì la logica con cui si investe deve pur considerare le attese di rendimento, senza le quali, qualsiasi rischio risulterebbe sempre “eccessivo”.